Con il termine “bullismo”, si indica, in modo generale, e in ambito accademico, quella particolare forma di comportamento sociale, di tipo intenzionale e violento, tanto di natura fisica quanto psicologica, ripetuto nel corso del tempo, attuato nei confronti di persone considerate come più deboli dal soggetto o dal gruppo che perpetra uno o più di tali atti.
Proprio per questa sua natura, intrinsecamente relazionale (in quanto il bullo, per poter essere tale, ha bisogno del bullizzato), il bullismo è un fenomeno sociale, di tipo deviante, le cui cause non vanno, in alcun modo, ricercate in dinamiche individuali, quindi meramente psicologiche, bensì in contesti socio-culturali, la cui struttura è, essenzialmente, storica, dunque sociologica.
Nessun individuo nasce bullo, come non nasce buono o cattivo: diventa ciò che è, grazie all’insieme di esperienze e relazioni che riesce a costruire nell’arco del tempo.
I primissimi studi, inerenti il “bullismo”, sono stati svolti da psicologi, come il ricercatore norvegese Dan Olweus, che negli anni '70, per primo, utilizzò il termine inglese “bullying”, al fine di indicare quell’insieme di prepotenze prodotte all’interno di un gruppo di pari.
Nell’opera dal titolo “Bullismo a scuola”, Olweus, tenta di dare una definizione precisa di bullismo, scrivendo che “uno studente, è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato, e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente, nel corso del tempo, ad azioni offensive, messe in atto da parte di uno o più compagni”.
Pertanto, un’azione, secondo Olweus, può essere ritenuta “offensiva”, quando, il soggetto che la compie, lo fa o in modo intenzionale, arrecando un danno/disagio alla persona verso cui, la stessa azione, è diretta.
Olweus, inoltre, ritiene che tali azioni negative, o prepotenti, possono essere compiute attraverso:
1) contatto fisico
2) parole ingiuriose
3) allontanamento o esclusione dal gruppo.
Per far in modo che si parli di bullismo, dunque, deve potersi creare, secondo lo psicologo norvegese, in un certo contesto sociale, uno squilibrio di forze, ossia una relazione di potere asimmetrica, per la quale, il ragazzo, esposto ai tormenti, evidenzia difficoltà nel difendersi.
Olweus, inoltre, considera l’aggressività, che caratterizza il “bullo”, come una risposta comportamentale, e non come un mero impulso irrefrenabile, da dover essere appagato, necessariamente, attraverso meccanismi psicodinamici. Infine, lo studioso, evidenzia degli elementi comuni, che possono provocare, o esasperare, tale risposta, quali: il clima della classe, le intromissioni degli insegnanti, l’ambiente familiare, gli aspetti individuali dei ragazzi.
Oltre agli studi realizzati da Olweus, ve ne sono stati altri, successivi, sempre d’impronta psicologica, che meritano di essere citati: come quelli dei due studiosi inglesi S. Sharp e P. K. Smith.
Secondo i due ricercatori britannici, “un comportamento da bullo, è un tipo di azione, che mira, deliberatamente, a far del male o danneggiare; spesso è persistente, talvolta, dura per settimane, mesi e persino anni, ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime. Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori, c’è un abuso di potere, e un desiderio di intimidire e dominare l’altro” (S. Sharp e P. K. Smith 1985, pp. 87-88).
In Italia, invece, ad occuparsi del fenomeno bullismo, nel 1995, è stata la psicologa Ada Fonzi.
La Fonzi, in merito alle dinamiche eziologiche del bullismo, scrive alcune, note, pubblicazioni, rivolte all’analisi e allo studio di tutte quelle azioni, comportamenti e atteggiamenti, definiti, dalla stessa studiosa fiorentina, “intenzionali” e “aggressivi”.
Assieme alla propria équipe, la Fonzi, è arrivata alla conclusione che il termine inglese “bulliyng”, utilizzata dai colleghi del nord Europa, al fine di descrivere tutte quelle, particolari, azioni di prepotenza, esercitate da un gruppo di pari, nei confronti di uno o più individui, in Italia, debba essere sostituito dal termine “sopraffazione”.
Secondo la psicologa, infatti, sarebbe questo il termine più consono, e adeguato, nel descrivere tali, suddette, azioni socio-devianti.
Per questa ragione, la Fonzi, scrive che: “un ragazzo, subisce delle prepotenze, quando un altro ragazzo, o un gruppo di ragazzi, gli dicono cose cattive, o spiacevoli. È sempre prepotenza, quando un ragazzo riceve colpi, pugni, calci, minacce, viene rinchiuso in una stanza, riceve bigliettini offensivi, o, in ultimo, quando nessun altro ragazzo gli rivolge mai la parola”.
Questi fatti, spiega la Fonzi, tra i ragazzi, capitano con una certa frequenza, e, secondo la studiosa, chi subisce tali prepotenze, poi, non riesce a difendersi. Inoltre, prosegue la psicologa italiana, si tratta, sempre, di prepotenze, quando un ragazzo viene preso in giro, ripetutamente, e con cattiveria. Non si tratta, invece, sottolinea la ricercatrice, di prepotenze, quando due ragazzi, all’incirca della stessa forza, litigano tra di loro o fanno la lotta” (A. Fonzi 1997, p. 67).
Roberto De Vivo
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